La produzione pittorica di Dino Ferrari, nell’eterogeneità e versatilità che mostra immediatamente ad un primo sguardo, potrebbe far pensare ad un’incertezza dell’artista nel trovare un linguaggio personale, nel confronto costante con le grandi correnti dell’arte tra fine ‘800 e ‘900. Questo ad uno sguardo superficiale, poiché se all’osservazione subentra la riflessione, ci si accorge di come la sua arte si sia sviluppata per sovrapposizione di strati, capaci di vivere simultaneamente lungo tutta la sua vita. Una periodizzazione, in questo caso, non può che avere un merito limitato, quello, cioè, di indicarci i punti di svolta nella ricerca stilistica di Ferrari, ma nulla più di questo poiché, affianco ad opere più sperimentali, possiamo benissimo trovare paesaggi o ritratti più canonici ma con un’uguale intensità espressiva.
Spesso l’operato di un artista vissuto quasi sempre appartato come Ferrari (se si escludono i rapporti con alcuni artisti e con la committenza romana) deve essere giudicato nel valore delle singole opere, nella loro capacità o meno di esprimere un linguaggio denso e vitale, al di là di stretti paragoni di valore con correnti o altri artisti. Si pensi, ad esempio, ai ritratti di popolani eseguiti nella giovinezza, tra gli anni ’30 e gli anni ’40, ritratti impostati in uno stile tardo veristico, spesso melodrammatico, quasi neo-realistico, se ci si sposta dalla pittura al cinema, eppure capaci di comunicare con una composizione scabra, attraverso primi piani concentrati e vibranti, con un colore pastoso e compatto. Ferrari condensa così alcune delle caratteristiche del verismo, eliminando orpelli e particolari, lasciando un dettato che mostra la capacità di far tesoro di ogni insegnamento.
Insegnamenti, come si diceva, che si accavallano in questi anni d’apprendistato artistico, e che vedono Ferrari costantemente incuriosito ed attento a ciò che avviene fuori Ascoli, specialmente a Roma, alla ricerca di un confronto con la pittura espressionista di Mafai, Scipione e Pirandello e, successivamente, con la produzione del gruppo “Novecento” di Sironi e, anche, con alcuni aspetti dell’arte fascista. Sotto questi stimoli, la sua pittura subisce, dopo il secondo conflitto mondiale, una notevole mutazione, evidente nella semplificazione delle forme, nell’avvicinarsi più che all’arte classica, a quella primordiale, sulla riga di Campigli, impiegando un colore più violento e piatto, una pittura più libera e gestuale. Anche in questo caso, però, l’interiorizzazione di tali lezioni risulta fortemente personale e per nulla sterile, nel riorganizzare tutto in uno stile più sinuoso e accattivante che, in alcune opere con soggetti femminili, diviene quasi malizioso. La staticità e la nettezza della pittura di Carrà, Sironi, Campigli o Rosai, tesa verso una semplificazione ed un equilibrio di forme e contenuti, una riorganizzazione attenta degli insegnamenti delle prime avanguardie, come l’espressionismo tedesco e soprattutto il cubismo, era un aspetto che poco interessava Ferrari, il quale, oltre alla pittura arcaica, del ‘300 e del primo Rinascimento, bagaglio stabile di quegli artisti, guardava anche all’arte Manierista e Barocca, al disegno curvilineo e alla forzatura di prospettive e forme fisiche. Così se in un dipinto come “La giostra”, del 1961, la vicinanza con la pittura di Campigli è ancora preminente, nei quadri degli anni ’70, come “La venditrice di maschere” (1972), lo stile si carica di un movimento che deforma le proporzioni e che, grazie alla capacità evocativa delle maschere, richiamo alla pittura infantile di Klee, fa combaciare lo studio del classico con l’inquietudine di un espressionismo popolare, carnascialesco.
La presenza dell’arte di Klee assieme a quella del gruppo “Novecento”, ci dimostra come Ferrari non fosse attento a scuole o poetiche prestabilite, da seguire in modo acritico per un artista isolato e lontano dalle discussioni teoriche, quanto a ricercare una commistione che, in un miracoloso equilibrio, potesse far convivere aspetti diversi della pittura. Il suo interesse per l’arte classica, infatti, non ha mai escluso la provocazione dell’antigrazioso tipico delle Avanguardie Storiche, come nel “Il campione”, degli anni ’60 e in “Gruppo beat” (1972), che evidenziano, affianco ad una ricerca rivolta alla plasticità dei corpi e dello spazio, una strada parallela più fisica ed aggressiva, dove importanza centrale viene data ai colori e alla modalità di stenderli sulla tela. Possiamo così trovare figure umane fortemente semplificate, infantili appunto, quasi solo dei contorni, degli essere piatti, privi di spessore geometrico ma densi dell’energia delle tinte accese e contrastanti. Sono dipinti di un’irruenza un po’ isolata nella produzione dell’artista ascolano, probabilmente degli studi e delle prove, che, comunque, indicano bene come l’interesse di Ferrari non si fermasse solo alla forma e all’equilibrio, ma andasse indagando anche le molteplici potenzialità del colore e, soprattutto, dei materiali.
Sul finire degli anni ’70, infatti, la sua pittura subirà un fortissimo cambiamento tecnico e poetico, passando dalla pittura ad olio, alla pittura acrilica. Certo non è stato il cambio di tecnica a far mutare il suo stile, poiché, come in tutte le svolte importanti nella carriera di un artista, non è mai un solo fattore a concorrere al cambiamento, ma un insieme di reciproche influenze. L’acrilico mostra a Ferrari come il confronto e la riflessione che egli andava compiendo da anni intorno all’arte classica e arcaica, avesse la possibilità di imboccare una via nuova, esasperata e allucinata, da lui definita come “metallismo”, dove le forme si sarebbero potute stabilire in una dimensione a-temporale e fortemente evocativa. Esempio importantissimo ne è “Venere” (1977), uno dei primi lavori realizzati con la nuova tecnica, dove i gesti e il corpo della donna fermati in una compostezza fragile e contorta, rimangono raggelati nelle tonalità di un rosa accesso, privo di sfumature, fatto di campiture nette e contigue. La classicità, a questo punto, palesa a Ferrari il suo lato oscuro, dove l’equilibrio dell’opera riesce ad esistere anche dietro una destrutturazione dei canoni.
Come si diceva la svolta creativa di Ferrari non è stata solo il risultato di un cambio di tecnica pittorica e la riflessione quotidiana sulla forma e la composizione dei corpi, di cui restano moltissimi disegni incentrati su cavalli, tori, volti e busti, ne sono un esempio lampante. Ferrari lavora per tutti gli anni ’80, e fino al termine della sua vita, a queste grafiche che saranno la messa a punto delle sue nuove concezioni. Grafiche che ci parlano di un costante rapporto tra la propria arte e quella sia del cubismo e del post-cubismo, sia di Osvaldo Licini; uno studio, quindi, indirizzato, come spesso in lui, verso due poli, uno legato alla pittura come oggetto-quadro, fatta di forme scomposte e ricomposte al fine di trovare un nuovo e più vero equilibrio rispetto al reale, e l’altro teso ad una concezione della tela come spazio di rappresentazione del sogno e dell’immaginazione, della visione e del surreale.
Oltre ai disegni, l’elaborazione del nuovo corso artistico di Ferrari si esplicita anche in prove e abbozzi pittorici, come in un bozzetto del 1980, raffigurante una donna, nel quale un corpo con ancora richiami all’arcaico, viene inserito in un blu che invade tutto, da cui la figura appare per sottrazione di tonalità, un blu che richiama quello delle “Amalassunte” di Licini, un colore a-temporale, che già da solo descrive una dimensione irreale, immateriale. Ma proprio quest’ultimo aspetto della pittura di Licini, più visionario, non interessa Ferrari, che invece si sofferma su quel colore così intenso e contemporaneamente distante, freddo. Ora in quell’impasto deve gettare le sue solide figure, immergendo la loro arcaicità in una dimensione ambigua ed oscura.
L’altra lezione, poco sopra accennata, quella cioè del cubismo, più di Fernand Léger che di Picasso, viene vista dall’artista ascolano nella sua totalità, in modo tale da poterne sommare i molteplici aspetti, sviluppando un proprio linguaggio capace di giungere ad una classicità “postuma”, trasformata dal passaggio attraverso concezioni e poetiche contrastanti, dall’aspetto finale allucinato ma non privo di una nuova solidità e di un nuovo equilibrio. Il dipinto “Dee e demoni” (anni ’90) esemplifica alla perfezione tale discorso, nel mostrare le due figure principali, le dee appunto, definite in tutta la loro plasticità ma, soprattutto la seconda, sullo fondo, con stravolgimenti del volto del tutto innaturali, più vicini all’esasperazione della maschera. Elementi surreali, mostruosi, appaiono lungo tutto il bordo della tela, dove i demoni fanno capolino nei loro corpi destrutturati, quasi gelatinosi, amorfi, che richiamano alla memoria le figure di “Monumento agli uccelli” (1927) di Max Ernst. Classico ed anti-classico, stravolgimento e compostezza vengono immobilizzati da Ferrari, e non sappiamo se prima di un assalto o, forse, mentre si osservano e si studiano, per comprendere ognuno, le specificità dell’altro.
La voglia di realizzare figure con una fisicità nuova, altra rispetto a quella dei canoni, raggelata nella propria espressività accentuata, violenta e distante, spinge l’artista ascolano a sviluppare le proprie rappresentazioni giocando soltanto sulla superficie della tela, o della tavola come più spesso avviene, giustapponendo le varie forme a comporre quasi un collage, eliminando ogni prospettiva, partendo dalle conquiste del cubismo sintetico ma senza fermarsi all’equilibrio puramente formale di tanti seguaci picassiani. Le sue figure arrivano ad annullare ogno scuro quasi monocromatico, un insieme di terra, verde e viola, colto con le spalle alla croce, mentre volge lo sguardo, parandosi il volto dietro la spalla enorme, verso il grido di Cristo. Una crocifissione, quella di Castel di Lama, costruita tutta su piani sovrapposti ed intersecanti, quasi senza sfondo, il quale è composto da chiazze concentriche e tremanti, il sole e la luna che squarciano un cielo piombo; un’opera che fa convivere tutte le sfumature della pittura di Ferrari, in un superamento personale ed estremo delle lezioni dell’arte cubista e post-cubista, su cui aveva riflettuto per tanti anni.
Ma l’ultima evoluzione, la conclusione più alta di tutta la sua carriera, Ferrari la compie nella “Crocifissone” con predella, raffigurante la “Via crucis”, oggi esposta all’Auditorium della Carisap di Ascoli Piceno; opera alla quale lavorerà fino agli ultimi giorni della sua vita, inserendo e togliendo particolari. Il dipinto è realizzato su tavola e, ancora una volta, ad acrilico, ma, rispetto alla “Crocifissione” di Castel di Lama, presenta una novità che impressiona anche ad una semplice occhiata, ossia la mancanza di ogni colore al di là del blu, del nero e del bianco. Oltre a questa notevole rarefazione coloristica, scompare anche qualsiasi fondale o elemento accessorio, una spoliazione che Ferrari spinge fino alle estreme conseguenze, togliendo anche la croce di Cristo, e riducendo quelle dei ladroni a dei semplici pali. La scena appare, quindi, non più come una rappresentazione sacra di tradizione cristiana ma quasi come un totem primitivo, dove le figure sono scolpite sulla superficie e si stagliano verso l’osservatore con il peso di tutto il loro mistero e la loro potenza evocativa. Della rappresentazione canonica non c’è più nulla, tanto che Cristo non mostra sul proprio corpo neppure le ferite dei chiodi sulle mani o lo squarcio sul costato; Ferrari lascia solo il dramma della scena a sottolineare due impossibilità, quella dell’uomo di credere ad un così alto sacrificio e quella, quasi eretica ed esasperata, che Cristo si penta del proprio atto rivolto ad un’umanità tanto assurda e sorda. Umanità che nelle figure dei ladroni appare come scarnificata e tesa, senza più alcun movimento di ritrosia o di avvicinamento a Gesù, limitandosi entrambi ad osservarlo con distacco e mutismo. Anche il corpo plasticamente contorto del ladrone alla sinistra di Cristo, non mostra più alcuna espressione sul volto, alcun sentimento, resta solo racchiuso in un tono più scuro ed in un corpo destrutturato e sproporzionato. Il medesimo discorso vale anche per le figure ai piedi della croce che, a differenza dell’opera di astel di Lama, non mostrano differenze di fattura ed impostazione rispetto alla parte alta del dipinto, poiché ugualmente raggelate e scolpite in masse plastiche ben delineate, in panneggi, volti e muscolature, netti e spigolosi, dove, più che lo sconvolgimento, sopra i volti appaiono espressioni inebetite. La figura che doveva rappresentare il terrore di fronte alla verità di Cristo, il centurione, mostra solo le braccia e le mani, con cui fa sprofondare il viso in un buco nero che vieta all’osservatore qualsiasi identificazione certa.
Che la pittura dell’ultimo Ferrari rinuncia quasi totalmente ad una composizione coloristicamente pittorica, per concentrarsi sulle forme e le geometrie dei corpi come in una scultura, ce lo dimostra compitamente la predella sottostante, strutturata come un lungo bassorilievo dove le figure si accavallano e sovrappongono, in un gioco di scomposizioni e horror vacui che trasforma Cristo in una qualsiasi delle varie comparse sulla scena.
Con le opere dell’ultimo ventennio ed, in special modo, con le ultime crocifissioni, Ferrari ci lascia la summa di un percorso artistico personalissimo e particolare, fuori da correnti o scuole ma sempre attento a rivalutare e metabolizzare i grandi insegnamenti della pittura nazionale ed internazionale della prima metà del ‘900, alla ricerca di un linguaggio denso e drammatico e di una pittura asciutta, feroce ed inquietante.ni moto, divenendo ieratiche come icone bizantine, come nel “Senza titolo” degli anni ’90, o in “Vanità di donne” del 1985, entrambe giocate, ancora una volta, sulle tonalità del blu, sul nero e sul bianco. Non è un caso, allora, se l’ultima e più intensa fase dell’opera di Ferrari, sia stata rivolta alla tematica delle grandi crocifissioni.
Questo soggetto, nell’ultimo decennio della sua attività, diviene il luogo dove mettere a frutto tutto lo studio e la ricerca di una vita, dove esporre il proprio stile più compiuto e significativo, dipingendo figure drammatiche ma non tragiche, poiché nulla avviene mai definitivamente sulla scena privata di ogni dinamicità, sospesa un attimo prima che tutto accada, come a voler evitare che il sacrificio si compia. Già nella “Crocifissione” esposta nella Chiesa di S. Antonio da Padova, a Castel di Lama, del 1981, si può osservare, in tutta la sua intensità e il suo rigore, una composizione che coniuga due aspetti tra loro divergenti: da una parte un’immobilità di espressioni, movimenti e sentimenti; dall’altra un disegno fortemente ondulato, quasi tremulo nel definire i corpi, soprattutto del Cristo e dei due ladroni, costringendoli ad evoluzioni ed avvitamenti totalmente innaturali, specie nel ladrone alla sinistra di Gesù, il quale si contorce sulla croce come ad abbarbicarsi ancor di più allo strumento delle proprie sofferenze. Cristo è raggelato in uno sguardo vitreo ed in un grido allucinato ma privo di dolore, quasi fosse assente a tutto ciò che sta per compiersi. Lo stesso guardo vuoto è sia del ladrone di destra, tutto proteso in una spalla gigantesca verso Gesù, sia delle figure ai piedi della croce, dove la scena si pietrifica in corpi composti più geometricamente, più pesanti nella loro plasticità, come a dire che l’evento avviene su due piani diversi e separati, quasi incomunicabili e dove, oltre all’impossibilità di comprendere appieno, può esistere solo il terrore, quello del centurione, dipinto in un tono scuro quasi monocromatico, un insieme di terra, verde e viola, colto con le spalle alla croce, mentre volge lo sguardo, parandosi il volto dietro la spalla enorme, verso il grido di Cristo. Una crocifissione, quella di Castel di Lama, costruita tutta su piani sovrapposti ed intersecanti, quasi senza sfondo, il quale è composto da chiazze concentriche e tremanti, il sole e la luna che squarciano un cielo piombo; un’opera che fa convivere tutte le sfumature della pittura di Ferrari, in un superamento personale ed estremo delle lezioni dell’arte cubista e post-cubista, su cui aveva riflettuto per tanti anni.
Ma l’ultima evoluzione, la conclusione più alta di tutta la sua carriera, Ferrari la compie nella “Crocifissone” con predella, raffigurante la “Via crucis”, oggi esposta all’Auditorium della Carisap di Ascoli Piceno; opera alla quale lavorerà fino agli ultimi giorni della sua vita, inserendo e togliendo particolari. Il dipinto è realizzato su tavola e, ancora una volta, ad acrilico, ma, rispetto alla “Crocifissione” di Castel di Lama, presenta una novità che impressiona anche ad una semplice occhiata, ossia la mancanza di ogni colore al di là del blu, del nero e del bianco. Oltre a questa notevole rarefazione coloristica, scompare anche qualsiasi fondale o elemento accessorio, una spoliazione che Ferrari spinge fino alle estreme conseguenze, togliendo anche la croce di Cristo, e riducendo quelle dei ladroni a dei semplici pali. La scena appare, quindi, non più come una rappresentazione sacra di tradizione cristiana ma quasi come un totem primitivo, dove le figure sono scolpite sulla superficie e si stagliano verso l’osservatore con il peso di tutto il loro mistero e la loro potenza evocativa. Della rappresentazione canonica non c’è più nulla, tanto che Cristo non mostra sul proprio corpo neppure le ferite dei chiodi sulle mani o lo squarcio sul costato; Ferrari lascia solo il dramma della scena a sottolineare due impossibilità, quella dell’uomo di credere ad un così alto sacrificio e quella, quasi eretica ed esasperata, che Cristo si penta del proprio atto rivolto ad un’umanità tanto assurda e sorda. Umanità che nelle figure dei ladroni appare come scarnificata e tesa, senza più alcun movimento di ritrosia o di avvicinamento a Gesù, limitandosi entrambi ad osservarlo con distacco e mutismo. Anche il corpo plasticamente contorto del ladrone alla sinistra di Cristo, non mostra più alcuna espressione sul volto, alcun sentimento, resta solo racchiuso in un tono più scuro ed in un corpo destrutturato e sproporzionato. Il medesimo discorso vale anche per le figure ai piedi della croce che, a differenza dell’opera di astel di Lama, non mostrano differenze di fattura ed impostazione rispetto alla parte alta del dipinto, poiché ugualmente raggelate e scolpite in masse plastiche ben delineate, in panneggi, volti e muscolature, netti e spigolosi, dove, più che lo sconvolgimento, sopra i volti appaiono espressioni inebetite. La figura che doveva rappresentare il terrore di fronte alla verità di Cristo, il centurione, mostra solo le braccia e le mani, con cui fa sprofondare il viso in un buco nero che vieta all’osservatore qualsiasi identificazione certa.
Che la pittura dell’ultimo Ferrari rinuncia quasi totalmente ad una composizione coloristicamente pittorica, per concentrarsi sulle forme e le geometrie dei corpi come in una scultura, ce lo dimostra compitamente la predella sottostante, strutturata come un lungo bassorilievo dove le figure si accavallano e sovrappongono, in un gioco di scomposizioni e horror vacui che trasforma Cristo in una qualsiasi delle varie comparse sulla scena.
Con le opere dell’ultimo ventennio ed, in special modo, con le ultime crocifissioni, Ferrari ci lascia la summa di un percorso artistico personalissimo e particolare, fuori da correnti o scuole ma sempre attento a rivalutare e metabolizzare i grandi insegnamenti della pittura nazionale ed internazionale della prima metà del ‘900, alla ricerca di un linguaggio denso e drammatico e di una pittura asciutta, feroce ed inquietante.
di Daniele De Angelis